Banca e attività bancaria `a proprio rischio’

Nell’articolo precedente richiamavo a) gli elementi che connotano tipicamente l’attività della banca commerciale (denominata anche: banca ordinaria, banca di deposito, banca di deposito e sconto, banca inglese, banca a breve termine) e b) la circostanza che questa particolare impresa svolge la propria attività `a proprio rischio’ in vista del profitto.

La locuzione a proprio rischio, apparentemente di immediata comprensione, è tuttavia insidiosa. Cioè `rischio proprio’ di chi?

Sappiamo che il rischio dell’impresa capitalistica dovrebbe in primis ricadere sui portatori di fondi propri (gli azionisti) e, solo successivamente, sui creditori (obbligazionisti e depositanti), essendo, l’impresa, un’entità `astratta’. Eppure anche l’impresa, per quanto appaia un’entità astratta è in concreto un’azienda, una struttura organizzata di fattori produttivi che tende a realizzare profitti, per cui essa stessa è un `patrimonio’. Il rischio, perciò, riguarda sia la perdita dell’impresa, dell’azienda, sia la perdita a carico degli azionisti e dei creditori.

<<Per una perdita subita non c’è più rimedio. Di fronte ad una perdita gli economisti sono bravi quanto i medici […] di fronte alla morte […]; la perdita è una distruzione o una menomazione di patrimonio>> [1]

Ma anche la ripartizione di rischi fra azionisti e creditori, apparentemente chiara, è alquanto insidiosa almeno per due motivi: anzitutto perché, da un punto di vista economico-finanziario, qualsiasi finanziatore assume il rischio dell’impresa nel suo complesso anche se, da un punto di vista giuridico, tale rischio è ripartito in base alla configurazione contrattuale dell’obbligazione assunta; in secondo luogo, perché l’attività bancaria è fondata su meccanismi fiduciari e reputazionali scarsamente trasparenti in se stessi e comunque di difficile percezione da parte dei creditori (come si cercherà di osservare in un altro articolo).

I lettori più anziani di questo scritto ricorderanno che in anni lontani, durante la stagione dei bilanci le banche indicavano fra i loro successi professionali, l’aumento della raccolta, cioè l’aumento dei loro debiti: per quanto sorprendente, indicavano in questo modo la crescita della loro affidabilità nei confronti del pubblico. Il pubblico, però, comprava rischio e, per questo, veniva remunerato.

Il motivo di questo apparente misunderstandingmi mi pare riconducibile alla generalizzata convinzione che le banche prestassero una fetta dei loro depositi: aumentando i depositi, la fetta destinata ai prestiti, agli impieghi, cresceva: così le banche compravano rischio dalle imprese e, nel contempo, vendevano rischio ai depositanti, agli obbligazionisti, agli azionisti i quali non potevano, oggettivamente, misurarne la consistenza. Questa idea dei depositi come `materia prima’ era talmente diffusa da costituire il paradigma intorno al quale si giudicava tutta l’attività bancaria. Gli eventi bancari che si sono susseguiti nel corso degli ultimi decenni, peraltro, lascia presumere che questa convinzione sia ancora viva e vegeta.

Presumo che questo paradigma si sia diffuso in forza di una semplificazione, di una sintesi, che riproduceva il modus operandi delle banche centrali in regime di convertibilità applicandolo alle banche ordinarie: mutatis mutandis, se la riserva aurea (o assimilabile) risultante della storia economica passata del Paese era il fondamento, il tallone che doveva `sostenere’ la circolazione e pertanto non poteva essere azzerata; analogamente il frutto del risparmio di periodi precedenti, i depositi, non potevano essere prestati in toto. Bisognava detenerne una parte in mezzi liquidi. Così la `liquidità’ avrebbe fronteggiato gli eventuali problemi di esigibilità dei depositi:

<<È ovvio che ogni banca non può dare altro credito di quello che riceve>> [2]

<<La banca fa credito in quanto riceve credito>> [3]

<<Più volte abbiamo ribadito in questa sede una verità lapalissiana solo nella formulazione: che la banca esiste per far credito. La raccolta le fornisce la materia prima>> [4]

<<…il limite dei crediti che la banca può concedere […] dipende dalla riserva monetaria [cioè] da un rapporto proporzionale tra la massa dei depositi in conto corrente e la quantità di scorta metallica esistente>> [5]

<< Come si imposta […] la gestione della banca di deposito e sconto? A un lato essa riceverà dei versamenti da depositanti che desiderano aumentare il loro deposito o costituirne di nuovi e da beneficiari di crediti che intendono rimborsare i prestiti ottenuti, dall’altro essa dovrà far fronte a domande di pagamento da parte di depositanti che ritirano i precedenti depositi e di beneficiari di crediti che utilizzano i crediti loro aperti. Se le due masse di versamenti e di richieste di fondi si bilanciano in ogni momento, la banca potrebbe impiegare fruttuosamente tutte le sue disponibilità, potrebbe cioè operare senza tenere in cassa riserve liquide.>> [6]

Queste sintesi da parte di diversi eminenti studiosi della disciplina, tuttavia, venivano immediatamente precisate in pagine e in scritti contemporanei volti a testimoniare che i problemi di liquidità non sorgevano tanto dalla raccolta dei depositi, ma dagli impieghi: i rischi venivano così connessi con l’attività creditizia, cioè con gli attivi e non con i passivi delle banche, per cui concludevano che, non potendo far ricadere i rischi sui creditori, le banche dovessero disporre di fondi propri.

 <<La banca [che] ha ricevuto un credito perpetuo, può concederne del breve o lungo, a suo piacimento. Questo è un caso estremo. Il caso estremo opposto si ha allorché una banca ha un capitale proprio di importanza evanescente e lavora interamente, o prevalentemente, con il credito che le viene fatto dai depositanti. […] Tra le banche, o meglio, le aziende finanziarie, che operano esclusivamente o prevalentemente con propri capitali e quelle che operano esclusivamente o prevalentemente con i depositi, havvi una gradazione infinita di istituti. >> [7]

<<la solvibilità della banca, in definitiva, dipende dalla qualità del portafoglio e non dalla quantità dei depositi […] da qui nasce la regola […] che debba avere un suo capitale iniziale>> [8]

<<la natura di un credito dipende sostanzialmente (a) da chi perché e come è stata presa l’iniziativa di aprirlo e (b) dalle fonti che consentono di chiuderlo. Questi due […] sono i punti focali di ogni fido>> [9]

<<E’ dunque il problema della trasferibilità delle operazioni attive, piuttosto che quello del loro effettivo esaurimento l’elemento che rimane alla radice dei problemi della banca: e il problema della qualità degli attivi bancari non riguarda tanto la loro scadenza quanto la loro trasferibilità, connotato essenziale della liquidità>> [10]

Si possono dunque trarre alcune conclusioni: a) se la performance dell’attività bancaria dipende dalla qualità degli attivi, il rischio non dovrebbe essere posto a carico dei creditori (in primis i depositanti e gli obbligazionisti) ma a carico dei titolari del capitale proprio; b) la configurazione di capitale proprio è il capitale netto, (= al capitale sociale + le riserve cumulate anno dopo anno) con tutti i problemi che questa configurazione implica.

L’autore che, fin dal 1909, `prende il toro per le corna’ mi sembra sia J. A. Schumpeter:

<<da dove provengono le somme che vengono adoprate per l’acquisto dei mezzi di produzione necessari per le nostre combinazioni [produttive], se il soggetto economico […] non le ha già? La risposta che di solito si dà è semplice: dall’aumento annuo del risparmio […] vi è tuttavia un altro metodo di ottenere denaro a questo scopo che […] non presuppone l’esistenza di risultati del precedente sviluppo accumulati e quindi può essere considerato a rigor di logica come l’unico accessibile. Questo secondo modo di procurarsi la moneta è la creazione di potere d’acquisto da parte delle banche […]>> [11]

E ancora:

<<possiamo definire il nucleo centrale del fenomeno credito nella maniera seguente: il credito è essenzialmente creazione di potere d’acquisto al fine di cederlo all’imprenditore, e non semplicemente trasferimento di potere d’acquisto esistente>> [12]

Queste conclusioni, elaborate dall’Autore in periodo di convertibilità ancorché claudicante, evidenziano almeno due fenomeni: a) i prestiti nascono dal nulla; b) i prestiti creano i depositi; corollario, c) i capitalisti, coloro che investono fondi propri nell’attività bancaria, ne sopportano il rischio.

Come vedremo nel prossimo scritto, le affermazioni di Schumpeter fecero inorridire De Viti De Marco.

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[1] M. Pantaleoni, La caduta della Società di Credito Mobiliare, 1894; ristampa, Giuffrè, Milano 1977, pp. 147-148.
[2] Ibidem, p. 55.
[3] A. De Viti De Marco, La funzione della banca, 1898 e 1934, ristampa Einaudi, Torino 1936 (ora in M. Finoia (a cura di), Scrittori della moneta e della banca, Utet Libreria, Torino 1990, p. 30).
[4] R. Mattioli, in Banca Commerciale Italiana, Relazioni del Consiglio di Amministrazione all’Assemblea Generale (1945-1965), Capriolo e Massimino 1967, p. 230.
[5] A. De Viti De Marco, cit.,pp. 26-27.
[6] P. Saraceno, L’attività bancaria, Vita e Pensiero, Milano 1957 (ora in M. Finoia (a cura di), Scrittori della moneta e della banca, Utet Libreria, Torino 1992, p. 38).
[7] M. Pantaleoni, op. cit., p. 56-57.
[8] A. De Viti De Marco, op. cit., p. 30.
[9] R. Mattioli, I problemi attuali del credito, in AA.VV. I fidi nelle aziende di credito, Giuffrè, Milano 1962, p. 226.
[10] P. Saraceno, Liquidità e bilancio nella gestione bancaria: voci dell’Enciclopedia Bancaria, Sperling & Kupfer, Milano 1942 (ora in M. Finoia (a cura di), Scrittori della moneta e della banca, Utet Libreria, Torino 1992, pp. 146 e 163.
[11] J. A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, 1909, ristampa Sansoni, Milano 1971, pp. 81-82.
[12] Ibidem, p. 117.

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